• Primo Marella Gallery Lugano è lieta di presentare la nuova mostra di Agostino Arrivabene, intitolata "Aprire le Zolle. Visioni dal Sottosuolo". Attraverso un gioco di rimandi tra luce e ombra, nascita e trasformazione, l'artista esplora la potenza di un atto creativo che affonda le sue radici sia nella terra che nelle profondità dell'animo umano.

     

    Il titolo della mostra trae ispirazione da una delle poesie più emblematiche di Alda Merini, “Sono nata il ventuno a primavera”, che celebra la rinascita e la tempesta, l'incontro tra l'invisibile e il visibile. In questo profondo dialogo con la poetessa, Arrivabene traccia una linea simbolica che collega l'equinozio di primavera al solstizio d'estate, due estremi di un ciclo che si riflettono nel gesto artistico come un'ipotenusa d'amore.

     

    Aprire le zolle” non è solo un atto fisico ma un gesto metafisico: scavare, dissodare, portare alla luce ciò che è rimasto nascosto. Le opere in mostra sembrano germogliare da un terreno fertile, portando in superficie visioni che attraversano gli inferi e toccano l'inconscio, il tragico e il mistico. Come Persefone, la dea che cammina tra i mondi, l'artista invita lo spettatore a scoprire un regno in cui luce e ombra si fondono in un abisso di significati e rivelazioni.
    È un invito a immergersi in un viaggio che va oltre la superficie, per riscoprire la forza primordiale della creazione e dell'esistenza.

  • L'erbario, Omaggio alla Primavera di Giuseppe Arcimboldo

    L'erbario

    Omaggio alla Primavera di Giuseppe Arcimboldo

    Criticamente, L'erbario si inserisce in una linea di continuità ideale con la pittura di Arcimboldo, ma si distanzia dalle sue reinterpretazioni postmoderne. Qui non c'è ironia, non c'è manierismo, ma piuttosto una visione notturna e profonda: il fiore non è più un mero elemento decorativo, ma un oracolo vivente, carne metamorfica. Agostino Arrivabene, in quest'opera, non rielabora la famosa “Primavera” arcimboldesca a scopo di citazione, ma ne compie una sorta di infrazione mistica. La figura che emerge non celebra la stagione del risveglio, ma ne sogna il ritorno: è Choré, Kore, Persefone - la dea rapita che, nel buio dell'Ade, si trasforma nel sogno stesso della Madre Terra. È una sorgente vista dall'ombra, sospesa tra radici e memoria.
    La tecnica della tempera grassa, scelta per la sua capacità di velare e rivelare, contribuisce a questo effetto di sensibile stratificazione: la carne della figura si mescola alla corteccia, ai petali, come in un processo di reintegrazione nella materia primigenia della pittura antica. Ma non c'è nostalgia, né sterile citazione: è un ritorno vitale e fecondo.

  • L'innesto di fiori veri, raccolti, essiccati e integrati nella superficie pittorica, è un atto d'amore ma anche di illusione: il reale si nasconde nella finzione, la natura morta prende vita, in una sorta di “erbario animato” dove il dato botanico si intreccia con la visione mitica.
    Il volto al centro dell'opera non è un ritratto: è un'icona, un simulacro di attesa. Una figura archetipica, severa e muta, che sembra custodire in sé il segreto di una fioritura sospesa. È la nostalgia stessa a prendere forma, come una statua floreale o una maschera rituale del tempo perduto. Nella filigrana si avverte una riflessione più ampia e luttuosa sulla bellezza: condannata a sbocciare di nuovo e poi a svanire, a non essere mai del tutto presenza, ma sempre sogno.

    Sul piano simbolico e mitologico, Choré non appare più come la vittima dell'estasi, ma come la sacerdotessa del proprio ciclo vitale. I fiori che la incoronano non nascono dalla luce, ma dal suo ricordo; non generano figli, ma stagioni interiori. Le radici che emergono dal suo seno, i fiori che sbocciano dalle fessure e dalle vene, parlano di una maternità inversa: Persefone è figlia e madre insieme, e forse anche Demetra si reinventa nel sogno della figlia.

     

    Come recita una delle suggestioni poetiche legate all'opera:
    "La primavera non è più un ritorno, ma un silenzioso delirio sotto la terra. Un fiore che nasce nel sonno dell'abisso.
    Una madre che partorisce la propria madre".

    L'erbario” è quindi molto più di un quadro: è un canto vegetale dell'assenza, un altare per il tempo che non passa ma si trasfigura.

  • Érgot

    Érgot

    In questo ritratto, Persefone si manifesta nella solenne ieraticità di un aspetto regale e silvestre. L'opera si ispira direttamente all'iconografia rinascimentale, in particolare al celebre disegno di Leonardo raffigurante Isabella d'Este, conservato nel Gabinetto dei Disegni del Louvre: non una semplice citazione, ma una reincarnazione simbolica, come se Leonardo stesso, trasmigrato nel Regno dei Morti, fosse diventato il pittore di colei che regna sull'Aldilà.
    La figura della dea è raffigurata di profilo, in un equilibrio ascetico e severo, ma allo stesso tempo partecipe della materia che la genera. La sua testa è cinta da una corona spontanea di segale cornuta (Claviceps purpurea), il fungo parassita del grano che contiene il principio attivo dell'acido lisergico, la segale cornuta, da cui nasce nei riti eleusini la bevanda visionaria del ciceone. Questo particolare stelo che tiene in mano, come uno scettro di potere e di allucinazione, diventa una chiave di accesso al mondo inferiore e a quello superiore: un'insegna di metamorfosi.

  • Sulla sua veste pesano i doni e le perdite: magnolie e rose, offerte alla Terra e alla Madre abbandonata nel mitico rapimento; radici, cardi, gemme scure e umide come frutti del suolo che Persefone ha fertilizzato con il proprio esilio. Le mani della dea sembrano ema- nizzare e allo stesso tempo raccogliere questi emblemi, come se la sua stessa carne germinasse vegetazione, in un processo di identificazione con il suolo e la memoria.
    È fondamentale anche l'origine pittorica di questo dipinto: l'immagine sacra della dea sorge letteralmente sulla sepoltura di un'opera precedente, un bozzetto dei Grandi Misteri, diventando così un'icona palinsestica, un simulacro cresciuto sul corpo del passato, come un fiore che germoglia da una tomba. Questo dato non è secondario, ma fondamentale per la lettura dell'opera: Persefone diventa allora un'epifania della stratificazione, un corpo-donna cresciuto sullo strato del mistero, sul mito sepolto, sulla pittura redenta e rigenerata.

    L'opera è un altare di potere silenzioso, e lo spettatore non è spettatore ma officiante. In essa si uniscono: classicismo leonardesco, naturalismo visionario, alchimia psichica della materia e memoria del proprio gesto pittorico precedente, che non viene cancellato, ma trasfigurato nel sacro.

  • Il mito di Persefone

    Il mito di Persefone è uno dei racconti più affascinanti e simbolici della mitologia greca, profondamente legato ai cicli naturali e all'alternarsi delle stagioni. Persefone, figlia della dea Demetra, viveva una vita serena tra fiori e luce fino al giorno in cui Ade, dio degli Inferi, la rapì per farne la sua sposa. Il dolore di Demetra per la scomparsa della figlia fu così profondo da interrompere ogni forma di vita sulla terra: i campi smisero di dare frutti, la terra si inaridì e l'umanità fu colpita dalla carestia.
    Solo l'intervento di Zeus portò a un compromesso: Persefone avrebbe trascorso sei mesi all'anno nell'Ade con Ade e sei mesi sulla terra con sua madre. Da questa alternanza deriva la spiegazione mitologica delle stagioni: l'autunno e l'inverno corrispondono alla sua discesa negli inferi, mentre la primavera e l'estate segnano il suo ritorno e la rinascita della natura.
    Nel tempo, il mito di Persefone ha assunto anche un significato simbolico legato alla trasformazione e alla fertilità. Alcune piante sono diventate rappresentazioni viventi del suo destino. Il melograno, ad esempio, è il frutto che Persefone assaggia nell'Ade, legandosi per sempre a quel regno; i suoi chicchi rossi sono simbolo della vita che nasce dalla morte. Il papavero, sacro a Demetra, richiama il sonno e l'oblio, ma anche il potere generativo della terra. Infine, il grano è l'emblema stesso del ciclo della semina e del raccolto, della morte apparente del seme e della sua rinascita nella spiga.

  • Nel corso del tempo, il mito di Persefone ha assunto anche un significato simbolico legato alla trasformazione e alla fertilità....

    Nel corso del tempo, il mito di Persefone ha assunto anche un significato simbolico legato alla trasformazione e alla fertilità. Alcune piante sono diventate rappresentazioni viventi del suo destino. Il melograno, ad esempio, è il frutto che Persefone assaggia nell'Ade, legandosi per sempre a quel regno; i suoi chicchi rossi sono simbolo della vita che nasce dalla morte. Il papavero, sacro a Demetra, richiama il sonno e l'oblio, ma anche il potere generativo della terra. Infine, il grano è l'emblema stesso del ciclo della semina e del raccolto, della morte apparente del seme e della sua rinascita nella spiga.

  • Nel corso del tempo, il mito di Persefone ha assunto anche un significato simbolico. In questo intreccio tra mito e...

    Nel corso del tempo, il mito di Persefone ha assunto anche un significato simbolico. In questo intreccio tra mito e natura, Persefone non è più solo una dea, ma diventa un simbolo vivente di continua trasformazione. Questo tema è stato splendidamente interpretato da Agostino Arrivabene in una scultura in legno di noce patinato in cui Persefone si trasforma letteralmente in una pianta rigogliosa. Il suo corpo si fonde con il legno, le sue membra si slanciano in forme vegetali, come se stesse sbocciando dalla materia stessa della terra. Un'immagine potente che restituisce visivamente il cuore del mito: Persefone non è solo una prigioniera dell'Ade, ma anche un seme di rinascita, una creatura in perenne metamorfosi tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

     

    Nel mondo romano, Persefone era conosciuta come Proserpina, dal latino “Proserpere”, che significa ‘emergere’, “germogliare verso l'alto” - un chiaro riferimento al ciclo delle piante e alla forza vitale che sorge dalla terra, proprio come fa lei ogni primavera. Anche il suo nome, quindi, è già un'immagine di metamorfosi: quella della natura che ritorna, che fiorisce di nuovo, che si rinnova.

  • Il collezionista d'ali

    Il collezionista d'ali

    Il dipinto Il Collezionista d'Ali si presenta come una visione epica e tragica, immersa in un paesaggio roccioso dilatato, dove figure umane e sovrumane si muovono come archetipi scolpiti nel tempo. Il centro compositivo è occupato da una figura maschile, inginocchiata, con il busto avvolto in un panneggio bianco che ricorda la purezza votiva o l'impotenza rituale: tiene in mano un teschio cornuto, simbolo del dominio sulla morte o della possessione negromantica, mentre accanto a lui si accumulano piume scarlatte e resti di ali mozzate.

    Di fronte, un giovane nudo - l'Icaro punito - precipita senza volo, con il corpo chino e il volto rivolto verso l'oscurità di un'apertura sotterranea, come se fosse attratto dall'abisso dell'iniziazione. Le sue ali, mutilate, non sono più strumenti di ascesi ma tracce di una hybris ormai estinta. L'epidermide del giovane si trasforma in un flusso di capelli vaporosi, come se la sua identità stesse svanendo nel vento del castigo.

  • A sinistra, una figura alata, possente e ieratica - forse un angelo, un genio o una personificazione del destino - sembra guidare il destino con un gesto solenne e irrevocabile. Il suo volto è immerso in un'aura luminescente che ricorda le nuvole degli antichi apparati divinatori, mentre la sua mano regge una lancia o uno scettro cosmico che dirige il corso degli eventi.
    Sullo sfondo, un paesaggio desertico stratificato, segnato da alberi sottili e minacciosi, si apre sotto un cielo attraversato da un arco di luce: un arcobaleno che, lungi dall'essere un segno di alleanza biblica, sembra qui essere il contrappunto ironico o sublime della caduta - una traiettoria invertita che accompagna la precipitazione dell'anima.

    L'opera affonda le sue radici nel mito di Dedalo e Icaro, ma lo reinterpreta attraverso una lente espiatoria e crudele, simile a quella di un post-orfismo tragico. Dedalo, qui non rappresentato direttamente, è evocato come una forza demiurgica cieca, un Prometeo tecnico che sacrifica il figlio per la perfezione del volo. Il “collezionista di ali”, figura centrale e allo stesso tempo giudice, boia e archivista dell'empietà alata, rappresenta l'inevitabile conseguenza del gesto sacrificale: raccoglie le prove, i segni corporei, delle sfide fallite contro l'ordine divino.

    L'evirazione alata di Icaro è un'immagine potente che ribalta l'estetica del volo come libertà per convertirla in condanna: la tecnica, portata oltre il limite, non eleva ma mutila. Il corpo di Icaro, scivolato in una trasparenza spettrale, diventa simbolo dell'anima che si dissolve quando l'hybris raggiunge il suo apice. L'intera composizione appare allora come una liturgia del fallimento, un teatro teurgico della caduta, in cui il Collezionista conserva le ali come reliquie blasfeme di un oltraggio al divino.

    L'angelo o il genio alato può essere letto come un Daimon punitivo, uno spirito che accompagna e conduce l'anima a destinazione, non come guida salvifica, ma come carceriere dell'ordine cosmico. È forse l'esecutore del verdetto o l'ombra celeste del desiderio che spinse Icaro verso il sole?

  • La pittura si colloca tra simbolismo esoterico, classicismo anatomico e fantasia contemporanea. Le atmosfere ricordano i paesaggi metafisici di Böcklin...

    La pittura si colloca tra simbolismo esoterico, classicismo anatomico e fantasia contemporanea. Le atmosfere ricordano i paesaggi metafisici di Böcklin e le visioni oniriche di Füssli, ma si fondono con la sapienza materiale di un pittore antico: ogni pietra, ogni piuma, ogni lembo di carne è trattato con una cura quasi fiamminga, che trasfigura il dato reale in ierofania.
    Il colore è dominato da toni terrosi e spettrali, attraversati da accenti aurorali e iridescenze eteree. La pennellata è fine, stratificata, al servizio del disegno plastico e della visione allucinata.

    Il Collezionista d'Ali non è solo un racconto mitologico reinterpretato, ma un affresco della punizione dell'ambizione, una parabola pittorica sulla colpa della conoscenza e sull'impotenza dell'arte di fronte al divino. È un'opera che interroga l'artista stesso - moderno Dedalo - sulla responsabilità della creazione e sul prezzo dell'elevazione. La bellezza, qui, è sacra e terribile, come la lama di un cherubino apocalittico.

  • Immergendosi nelle opere conservate nei musei europei e non solo, Arrivabene ha sviluppato una comprensione profonda e intuitiva dell'arte classica.
    La sua ricerca creativa ruota attorno alla ricerca della continuità, un filo che collega l'estetica e la poetica del passato con le contraddizioni del mondo contemporaneo. La sua arte riflette un deliberato ritorno ai valori della bellezza e della profondità spirituale, spesso persi nel discorso artistico moderno.
    Profondamente ispirato dagli Antichi Maestri - Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Jan van Eyck, i Primitivi fiamminghi e Rembrandt - Arrivabene ha forgiato il proprio percorso artistico, rifiutando la modernità a favore di tecniche e sensibilità antiche. Attraverso anni di studi autodidattici, ha fatto rivivere i metodi tradizionali di pittura, compresa la preparazione artigianale di pigmenti e materiali, molti dei quali erano da tempo caduti in disuso.
    Le sue opere sono caratterizzate da un'intensità visionaria e da un ricco linguaggio simbolico. Lavorando con materiali rari e preparati a mano, Arrivabene fonde elementi mistici e allegorici in composizioni oniriche. La sua immaginazione attinge a piene mani dalle collezioni rinascimentali e barocche di “Naturalia, Mirabilia et Artificialia” - un universo eclettico popolato da strani animali e oggetti curiosi, che riecheggia gli armadi delle meraviglie (Wunderkammern) del passato.

  • Il dolore, la morte e la decadenza sono temi ricorrenti nelle sue opere, non per morbosità, ma come necessari stati...

    Il dolore, la morte e la decadenza sono temi ricorrenti nelle sue opere, non per morbosità, ma come necessari stati di transizione. I suoi dipinti raffigurano spesso trasformazioni, in cui la sofferenza porta alla rivelazione spirituale. Queste metamorfosi sono rese attraverso simboli organici come i fiori o sottili tracce di luce, che suggeriscono il contatto con altri regni. Al contrario, alcune opere ritraggono paradisi radiosi, pieni di figure luminose sospese in un'attesa estatica, alla ricerca di risposte a domande cosmiche.

  • Nel contesto più ampio dell'arte della fine del XX e dell'inizio del XXI secolo, il lavoro di Arrivabene si allinea...

    Nel contesto più ampio dell'arte della fine del XX e dell'inizio del XXI secolo, il lavoro di Arrivabene si allinea con un rinnovato interesse per la spiritualità e il mistico. Come lui stesso afferma: “Il mio lavoro è un dialogo costante tra il sacro e il profano, un ponte che collega il divino e l'umano”. I suoi dipinti ricchi di simbolismo fondono le tradizioni visive medievali e sacre con una sensibilità contemporanea, soddisfacendo un moderno desiderio di significato, trascendenza e connessione.
    Per Arrivabene, la natura è un teatro di rivelazioni, un cosmo pagano ricco di fenomeni che accendono l'immaginazione. Arrivabene invita gli spettatori a impegnarsi in un atto di interpretazione personale, a esplorare i propri sogni, le proprie emozioni e le proprie intuizioni spirituali. Nella sua visione, l'arte non diventa solo un'esperienza visiva, ma un percorso di esplorazione interiore, dove l'anima naviga tra il visibile e il non visibile.

  • AGOSTINO ARRIVABENE

     

    APRIRE LE ZOLLE - VISIONI DAL SOTTOSUOLO

     

    PRIMO MARELLA GALLERY LUGANO

     

    21 giugno - 31 luglio 2025